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Caserta

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Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)”. Così recita la dedica che Saint – Exupéry appose al suo capolavoro, Il piccolo principe, segnalando in parentesi quella che è forse la segreta origine di tutti i mali della società: il rifiutare, cioè, lo stato fanciullesco, il colpevole oblio di quella condizione di semplicità e di candore che ci permette di accogliere filosoficamente il mistero dell’esistenza. Irene Caliendo lo ha ben compreso e, a sua volta, indirizza, in esergo, il suo lavoro a “tutti  lettori che vogliono dar voce al loro bambino interiore” e per esaltare questa dimensione ormai negletta, si offre di raccontare agli “adulti” dodici fiabe per “bambini”. A scandire il tragitto è, innanzitutto, il ritrovato rapporto dell’Autrice con la scrittura, odiata tra i banchi di scuola e riscoperta quasi per miracolo. E così Irene fa dono al lettore di un periodare mobilissimo, incalzante, nervoso, a tratti cinematografico; ideale supporto formale per far emergere l’intentio sostanziale che la motiva a scrivere: l’ambizione di sottrarre dallo scempio della devastazione dei tempi in cui viviamo esistenze, valori, ideali che le stanno a cuore. E, all’uopo, felicissimo instrumentum, si rivela il fiabesco, con la sua antica capacità di far lievitare le cose piccole a simboli metafisici , gocce di fresca rugiada sulle piaghe della nostra tormentata contemporaneità. Così davanti al lettore si squaderna un caleidoscopico susseguirsi di paradigmi: il personaggio di Sefosse, idiota dostoeviskijano, figlio della solitudine e del dolore, a ricordarci che l’innocenza e la dolcezza sono immortali, perché divine. Una parte del corpo che, come il naso gogoliano, si stacca dal resto, perché vuole farsi ammirare, ma piomba nella emarginazione, a mostrarci l’insensatezza della segmentazione sfigurante a cui una corriva cultura iperestetizzante ci conduce, mentre urge il bisogno di ritornare ad una integrità che è anche integralità del percepirsi come persona. Né manca la celebrazione dell’eterno reiterarsi del miracolo dell’amore in un Giuseppe e in una Maria del terzo millennio. Ed è ancora l’amore ad imporsi nell’adozione a distanza di un bambino da parte di un coetaneo più fortunato. Ancora più fortunati, poi, quei bambini che riscoprono l’affetto dei genitori, finalmente riconciliatisi con il loro tempo di paternità, troppo spesso svenduto e surrogato da impersonali giochi tecnologici. Occorre tuffarsi – si legge in una fiaba – nella piscina vuota, per fare il vuoto e liberarci dai nostri idola, che ci impediscono di capire, ad esempio, – ed è il senso di un altro denso apologo – che esistono ricchi “poveri” e poveri “ricchi”. Gli Idola pre-giudicano anche la nostra capacità di amare Lillo Esposito che parlava alle mosche e agli uccelli e che, come nel brano ampiamente citato del cantautore Cristicchi, decise di “volare” dalla prigione della malattia mentale in cui la società lo aveva rinchiuso. Liberati dai pregiudizi, comprenderemo con Ekisa che la felicità consiste nella pace interiore ed è dura conquista, perché la vita è un Bildungsroman. Per amare gli altri bisogna amare se stessi, si legge nelle ultime righe, e ci piace pensare che Irene abbia concepito questo volumetto nello stesso  istante in cui ha imparato ad amarsi. Frutto dell’amore è Favol’io, conseguentemente l’Autrice – ed è il suo merito maggiore – non dispensa un livido moralismo, ma avvolge il lettore in un’atmosfera di religiosità pudica e schiva, per nulla declamatoria e apodittica. Anche in ciò Irene Caliendo ci fa rivivere la lezione di Antoine Marie Roger de Saint – Exupéry: “… si vede bene solo col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

Alfredo Omaggio

 

 
                                  Irene Caliendo

                                                   Favol’io

                                                     racconti

                                                                                          Albus - Edizioni

 

 

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